mercoledì 16 settembre 2015

Piante e Animali Perduti come occasione di riscoperta culturale















La statua bronzea di Ferrante Gonzaga svetta su Piazza Mazzini a Guastalla, il punto centrale del percorso espositivo di Piante e Animali Perduti. Presi dai colori e dalle voci della manifestazione spesso non si offre la dovuta attenzione a uno dei tre bronzi rinascimentali ancora conservati in Europa: la statua bronzea di Ferrante Gonzaga. Un’opera straordinaria.

Nell’articolo che segue Fiorello Tagliavini 
spiega perchè.


Particolarmente complessa è la vicenda della realizzazione del monumento di “Ferrante Gonzaga trionfante sull’invidia” eseguito da Leone Leoni Aretino su commissione di Cesare Gonzaga nel 1562. Infatti attese ben 32 anni prima del suo completamento, curato dal figlio Pompeo Leoni nel 1592 e posizionato a Guastalla nel 1594.
Ma chi era Leone Leoni? Nato a Menaggio nel milanese nel 1509 c.a da una famiglia originaria d’Arezzo, si forma a Venezia come incisore di monete e medaglie, assorbendo gli influssi formali di Donatello e Jacopo Sansovino, evidenziando pure stilemi appartenenti alla tradizione michelangiolesca.
Grazie alla conoscenza del Tiziano e all’arresto di Benvenuto Cellini entra alla corte pontificia come incisore della zecca. Rischiò il taglio della mano destra per aver sfregiato un soldato tedesco 

e si salvò unicamente grazie all’interessamento di Andrea Doria.
Nel 1542 trasferitosi a Milano ottenne la carica di incisore della zecca imperiale e fu particolarmente apprezzato da Carlo V 

per il quale eseguì numerosi ritratti in bronzo.
Le sue opere di maggior rilievo sono la statua 

di “Carlo V che domina il furore” al Museo del Prado, il sepolcro del “Marchese Gian Giacomo di Marignano detto il Medeghino” realizzato su disegni del Buonarroti, nel Duomo di Milano e “Ferrante Gonzaga trionfante sull’invidia”.
Leone Leoni muore a Milano nel 1590.

Il complesso statuario di Ferrante è composto dalla figura del principe in abito da guerriero romano, raffigurante Ercole, che calpesta un satiro trafitto dalla lancia, simbolo dell’invidia, 
e che ha decapitato l’Idra a tre teste, emblema della calunnia.
Il corpo di Ferrante mostra una leggera torsione verso destra per lo spostamento in avanti del braccio sinistro leggermente arcuato e stringe nella mano semiaperta un’asta che punta sul braccio del satiro.
La mano destra ha nel suo palmo tre mele.
Il mito, a cui si richiama l’allegoria del monumento, è quello di Ercole che deve cogliere nel giardino delle Esperidi, figure femminili simili alle sirene, dotate di voci suadenti ed ipnotiche, le mele d’oro dell’albero donato da Demetra ad Era per le sue nozze con Zeus.

L’Eroe è Ferrante Gonzaga, straordinario uomo d’armi; il viaggio è quello del principe a Bruxelles per incontrare l’imperatore Carlo V, discolparsi delle accuse di tradimento ed appropriazione indebita, accuse a lui rivolte durante il governatorato di Milano; Ferrante riesce a dimostrare la falsità delle accuse e viene riabilitato con pubblica dichiarazione imperiale del 1 giugno 1555.
Ed ecco il completamento degli elementi simbolici: il Principe vittorioso, che decapita 

la calunnia il serpente a tre teste (tre come i detrattori di Ferrante) e sconfigge l’invidia, il satiro, che è anche presenza demoniaca.
Ferrante torna con tre mele d’oro dono degli dei, conquistate e trattenute nella mano destra quasi nascoste per la preziosità che rappresentano, simbolo d’onore di fedeltà e di verità.

Leone Leoni, pressoché coetaneo di Ferrante, 
ci da garanzie di somiglianza del volto con il nostro principe avendolo conosciuto ed incontrato a Milano.
Il corpo muscoloso, rientra nei canoni estetici tipici dell’epoca ma anche nello stile dell’artista. Non dobbiamo sottovalutare il fatto che Ferrante era un uomo d’azione e che le analisi sullo scheletro ci hanno mostrato un uomo di circa 

un metro e settanta con una massa muscolare importante.
Barba e capelli ricci con fronte spaziosa, glabre appaiono le braccia e le gambe, in cui, in modo puntiglioso, si mostrano le venature e i fasci muscolari.
Ci rendiamo conto di come nulla sia abbozzato, bensì come ogni minimo particolare mostri una pregevole fattura.
Gli spallacci e la lorica in cuoio, il fermaglio del mantello il panneggio i calzari, il gonnellino.

Il satiro, essere antropomorfo, metà capro e metà uomo, è raffigurato nello spasimo ultimo della morte. 
Il corpo ancora reattivo, non completamente accasciato, il viso composto in un ghigno più ferino che umano. Lo stesso corpo, 
con le braccia che tendono ad un ultimo appiglio danno un forte senso di drammaticità alla composizione.
Straordinaria è la parte caprina del satiro, una purezza zoomorfa in cui gli arti di capra sono di una perfezione assoluta, il piede bifido, la lana della coscia l’intrecciarsi delle zampe in un inutile tentativo vitale sono di una altissima forza espressiva.

L’Idra di Lernia, il serpente d’acqua, che viene decapitato da Ercole, in un altro episodio delle dodici fatiche, ha i piedi ungulati e palmati. 
La realizzazione che ne fa Leoni è, rispetto al mito, di dimensioni ridotte, tuttavia sono evidenti le teste parzialmente mozzate penzolanti ed i piedi palmati e dotati di artigli.
La statua mostra, in un lembo del mantello appoggiato sul corpo del satiro, quasi un piccolo stemma, la firma dell’artista che si sigla LEO ARETIN. Leone Aretino.



Approfondimento tratto dal sito Piante e Animali Perduti, a cui suggeriamo far riferimento per una consultazione preventiva utile a individuare gli straordinari percorsi del weekend guastallese dedicato alla biodiversità.
http://pianteanimaliperduti.it

martedì 15 settembre 2015

La MOSTARDA che piace alle genti della nostra Bassa del Po














Quando si parla di mostarda con amici stranieri l’equivoco è sicuro. Basta poco a capire che stiamo parlando di due cose differenti e che la moutarde francese o l’english mustard sono altra cosa. Quando se ne discute con gente della grande pianura del Po, invece, l’intesa è totale. In effetti è proprio il Grande Fiume ad aver unito le due ricette tradizionali più note per la preparazione della mostarda: quella cremonese e quella mantovana. Per carità: ci sono altre “mostarde” in terra veneta o piemontese, per esempio. Ma, ancora una volta, sono altra cosa perché diversi gli ingredienti e il modo di prepararle.
Ebbene sì, la nostra Pianura è la madre di un piatto di contorno a base di frutta conservata sotto sciroppo e senape. Unico nel suo genere. Con un gusto che accoppia arditamente il dolce col piccante, la mostarda si presta divinamente ad accompagnare antipasti ma soprattutto formaggi dal sapore deciso e, da sempre, i bolliti della tradizione natalizia. Con la carne, quindi, le dolcezze al palato sprigionate dai frutti ammollati nel denso bagno dolce intriso di soluzione zuccherina, sono in grado di fare da nobile contraltare con certi piatti succulenti.
Chi assaggia per la prima volta questo abbinamento, di norma, ne rimane colpito. 

È forte, deciso, complesso e può disorientare soprattutto nell’era del cibo spazzatura dove i gusti tendono ad essere uniformati per forza. Chi non è avvezzo a tali sapori contrastanti deve aver voglia di lasciarsi andare, senza reticenze o preconcetti, alla scoperta di un matrimonio solo apparentemente disarmante tra la carne e questa frutta dolce conservata. Non per chi vive nelle nostre terre, da sempre allevato fin dalla tenera età a godere di questo sano e indimenticabile connubio gustativo.
Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad un rinnovato interesse per la mostarda che non è mai scomparsa dalle tavole nelle terre bagnate dal Po ma che ora trova interesse commerciale non solo nella sua versione forse più conosciuta, quella cremonese, che da decenni si trova ovunque grazie ad una abbondante produzione industriale. Quella mantovana, prodotta nelle case anche dei Guastallesi da generazioni, trova ora un suo pur piccolo spazio grazie ad uno sparuto gruppo di produttori di quantità limitate e grazie anche ad eventi come Piante e Animali Perduti che ne sono degna vetrina.
Cremonese o mantovana? Quale scegliere?
Domanda da non fare mai ad un guastallese perché la prima non la si prende nemmeno in considerazione. Perché? La motivazione principale è che qui da noi non si usano i frutti interi come a Cremona. Poi non amiamo farne mescolanze che potrebbero confondere l’aroma tipico di ogni frutto contenuto. Poi ancora la senape, che nella patria di Stradivari è potente e persistente, talvolta copre il gusto della frutta.
 

Di converso ecco quindi la mostarda che piace alle genti della nostra Bassa del Po:

1) Un solo tipo di frutto per vasetto: cotogna o mela campanina o     pera autunnale.
2) La frutta deve essere di stagione, raccolta tra fine estate e inizio autunno (un modo come un altro per dire che la nostra mostarda tradizionale non conterrà mai mandarini, albicocche, pesche o ciliegie!). I colori della mostarda qui da noi si presentano tenui e pastellati, mai ricchi di colore!
3) I frutti devono essere tagliati a fettine o a spicchi, non troppo grossi e a seconda del tipo.
4) Il sapore deve essere dolce e cortesemente piacevole, carico degli aromi che vengono dai frutti i cui pezzi dovranno restare sodi ma capaci di sciogliersi in bocca dopo rapida e gustosa masticazione assieme a sapida carne bollita.
5) La senape deve sentirsi giusto per dare la tipica punta di piccante ma non deve mai (!) essere tanto invadente da smorzare o ferire i generosi sapori della buona frutta.
Alla fine è meglio passare dalle parole ai fatti. Durante Piante e Animali Perduti si svolge ogni anno una bella sfida tra produttori di mostarda. Vince, ovviamente, chi la fa più buona.
Un’occasione ghiotta per saperne di più e gustare prodotti artigianali, magari per portarsi a casa una delle chicche dell’antica cucina del Po.


Per attingere ad altre utili notizie, curiosità e informazioni sulle tradizioni del nostro territorio consultate direttamente le pagine della manifestazione Piante e Animali Perduti utilizzando per l'accesso il link http://pianteanimaliperduti.it

 

domenica 13 settembre 2015

Nel segno dei Gonzaga



In chiusura la mostra genealogico-iconografica a cura di GianCarlo Malacarne



I Gonzaga  in mostra al Museo Diocesano di Mantova in un’esposizione frutto di un lavoro di ricerca durato anni, in cui, grazie alla disponibilità dei collezionisti privati, ho ricostruito l’albero genealogico gonzaghesco attraverso i volti dei protagonisti.  

“Gonzaga. I volti della storia” 
è il titolo della mostra, allestita nella Sala delle Colonne del Museo diocesano “Francesco Gonzaga” di Mantova fino al 20 settembre prossimo. Dalla rassegna del 1937 in Palazzo Ducale non si era più vista, a Mantova, una mostra di questo genere, in cui le immagini si leggono in funzione della storia di una dinastia, narrando secoli di fasti e glorie, ma anche di efferati delitti e nefandezze commessi in nome della ragion di stato. Da anni dedico i miei studi a sondare l’universo Gonzaga e ho rintracciato in collezioni private quelle immagini di cui Mantova fu privata durante le note e tristi vicende che causarono la spoliazione delle collezioni Gonzaga, disperse tra musei e raccolte private in tutto il mondo. Immagini che non ritroviamo più, se non in minima parte, nei musei mantovani: i ritratti dei protagonisti della grande stagione del potere. Molti di questi volti sono fortunatamente affidati, oggi,  alla custodia di collezionisti privati, i quali hanno aderito con entusiasmo al progetto che ha dato luogo a questa mostra. Cento gli esemplari presenti tra medaglie, armi, ceramiche, mappe genealogiche e dipinti, i quali ricostruiscono il mondo estremamente sfaccettato della dominazione gonzaghesca, soffermandosi tanto sul ramo principale della famiglia quanto sui numerosi rami cadetti presenti per oltre quattrocento anni sul territorio mantovano e non solo, senza dimenticare il periodo dell’annessione monferrina ed il ramo cadetto di Vescovato, ancora in essere. Il corpus di dipinti, anche di notevoli dimensioni, costituisce una novità assoluta che si svela per la prima volta al pubblico. Uomini e donne del potere che hanno lasciato un segno tangibile sul nostro territorio dialogano con i visitatori guardandoli negli occhi e raccontando la loro storia personale, ricomponendo così, come in un puzzle, le complesse vicende dinastiche che costituirono quel tempo esaltante e mai dimenticato.
È una rassegna che non privilegia esclusivamente il ritratto in quanto tale, ma intende penetrare l’essenza stessa dei personaggi rappresentati, raccontandone la storia e leggendone l’anima. 
Si incontra, ad esempio, la sventurata Margherita Farnese, che causa l’imene corneo fu ripudiata dal marito Vincenzo I; Margherita di Savoia, moglie di Francesco IV Gonzaga, inutilmente sacrificata sull’altare della pace tra le due famiglie, mirabilmente immortalata dal Pourbus; il cardinale Ferdinando, successivamente diventato duca di Mantova, presente in entrambe le condizioni; Giovanni Gonzaga con la moglie Laura Bentivoglio, cadetti di Vescovato, rappresentati su due lattole lignee quattrocentesche; la misteriosa ed inquietante Matilde d’Este, moglie di Camillo III Gonzaga di Novellara, legata per sempre alla nefanda e tragica “acquetta”; Eleonora de’ Medici, moglie di Vincenzo I, ritratta con il primogenito Francesco da Lavinia Fontana; Antonio Ferdinando e Giuseppe Maria Gonzaga, ultimi della schiatta guastallese, immortalati insieme alle mogli là, a raccontare le loro crude storie. Oltre ai dipinti sono esposte alcune mappe genealogiche di eccezionale bellezza e valore documentario, che rimandano a una ricerca effettuata in epoca lontana sulle origini di una grande famiglia, sulle sue diramazioni, sugli imparentamenti, sapienti e finalizzati al mantenimento del potere in tempi oscuri e saturi di pericoli. Un coacervo di dati che, al di là della funzione strettamente documentaria, presentano espressioni artistiche di grande rilievo, come, ad esempio, la pergamena dedicata a Vespasiano Gonzaga del ramo cadetto di Sabbioneta, realizzata intorno agli anni ’50 del Cinquecento, con numerosi tondi fondo oro. Inoltre medaglie in oro, argento e bronzo pertinenti diversi personaggi di Casa Gonzaga, riconducibili ad artisti di conclamata importanza, quali Pisanello, Sperandio, Mola ed altri. Infine, la mostra ospita oggetti di particolare significato: ceramiche, libri, cofanetti, armi, appartenute alla famiglia e recanti inequivocabili segni distintivi che testimoniano storie gonzaghesche di grande spessore e afflato artistico.




























Quello delle opere d’arte esposte al pubblico nella mostra “Gonzaga. I volti della storia” è immaginabile come un viaggio infinito, che dura da cinque secoli e mai si concluderà finché resterà vivo e pulsante il desiderio di penetrare i misteri della storia anche nell’analisi di quei personaggi che in prima persona scrissero sapide pagine di un racconto così saturo di suggestioni da farsi mito. È come una marea che si alza a incutere timore, un’esondazione di sentimenti e di ricordi, un palpitare furioso che induce a correre con la mente ad un tempo lontano, permeato dal mistero che si coglie negli sguardi immobili di coloro che furono grandi ma ora non sono più; di coloro che paiono voler gridare al mondo, rifiutandola, la innaturale immobilità che li rivela ai nostri sguardi desiderosi di vita, di storie. Ritratti che immergono in una condizione di pathos alla quale affidarsi per comprendere e godere di un inusitato livello di comunicazione. 
Come Ulisse mille avventure visse e a lungo vagò per terre e mari prima di tornare a Itaca, la sua isola, la sua casa, così questi dipinti, dispersi in un’oceano virtuale, per un poco ritornano al luogo d’origine, a far parte di una vicenda inalienabile e scintillante che li vide protagonisti ma, ora, in attesa di salpare nuovamente le ancore e vagare nell’Infinito.
Bisogna guardarli quei ritratti. Bisogna soffermarsi a cogliere e far proprio il crogiolo di sentimenti che li pervade, le ansie, le gioie e le angoscie che occhi imbambolati e sguardi increduli rivelano e narrano a chi  desidera andare al di là di ciò che la tela rivela con immediatezza e, a volte, in modo mendace, ingannevole. Andare oltre il mero strato di colore fino ad incontrare l’anima. Non ci si dovrà fermare al mero aspetto fisiognomico o cercare di indovinare il nome del personaggio rappresentato, ma affidarsi ad una riflessione profonda, che mira a cogliere le emozioni che dal ritratto trapelano, abbandonandoci ad una sorta di transfert che ci calerà non soltanto nella storia, ma nel personaggio stesso. Diversamente la nostra resterà un’osservazione sterile, vuota di contenuti. Concediamoci un istante allo sguardo della sventurata Margherita Farnese, che ci riversa addosso tutta la sua greve malinconia e disagio e vergogna. Lei, proiettata per nascita ai fasti più esaltanti della dinastia mantovana, andata in sposa al “duchino” Vincenzo di Guglielmo Gonzaga, invece finita prigioniera senza speranza, sepolta in un convento a scontare il peccato di esistere. Lei, aperta a un divenire gioioso e invece percorsa e umiliata nella sua più nascosta intimità da mani algide e lubriche che cercavano un male oscuro nel quale far affogare i suoi sogni di giovinetta. Lei, per quel maledetto “imene corneo” eletta suo malgrado a protagonista di una storia volgare politicamente dirompente, costretta a chinare il capo davanti alla ragion di stato e morire agli occhi del mondo aristocratico che l’aveva generata. Soffermiamoci a mettere i nostri occhi in quelli incantati e sinistri di Matilde d’Este, consorte di Camillo III Gonzaga di Novellara; subito ci impossesseremo della dimensione di follia che pervase i suoi giorni, e leggeremo nel composto viso diafano e riccioli civettuoli aggettanti sulla fronte e sguardo tagliente e infingardo, la terribile vicenda che accompagnò la sua vita, che la spinse a creare il mortifero veleno che un nome dal suono argentino, leggiadro e incorporeo occultava alla conoscenza, al sospetto, allo spavento: “acquetta”. Forse un fremito ci percorrerà quando incontreremo il ritratto in armi di Francesco I Gonzaga. Il IV capitano di Mantova, uomo cinico e terribile, condannò alla decapitazione, per un adulterio mai commesso, la moglie Agnese Visconti insieme al suo presunto amante, Antonio da Scandiano, appeso per il collo a scalciare al vento, una gelida notte del febbraio 1391. Leggenda vuole che la sventurata Agnese si sia a suo modo vendicata di tanta menzogna e crudeltà, togliendo al suo assassino l’identità visiva che la storia tramanda ai posteri, perché per uno di quegli inintelligibili interventi del fato, l’immagine che del Gonzaga ci è pervenuta pare sia invece riconducibile a lei, all’innocente Agnese, giustiziata perché colpevole di non aver dato al signore di Mantova il figlio maschio che la dinastia pretendeva e di essere feroce nemica di Gian Galeazzo Visconti di Milano, suo cugino, divenuto alleato di Francesco Gonzaga, che gli aveva assassinato il padre Bernabò. Mettiamo i nostri occhi nello sguardo allucinato di Antonio Ferdinando di Guastalla, rapito da morte più che atroce e in quelli dell’altezzosa Teodora d’Assia sua sposa; scrutiamo anche il povero Giuseppe Maria, destinato a chiudere nel nulla una dinastia che fulgide pagine di storia aveva scritto. Sì, bisogna guardarli quei ritratti e cogliere da essi il racconto che il sapiente e fatato pennello di pur anonimi artisti ha saputo consegnare alla storia senza infingimenti, in un inarrestabile processo di immortalità. Bisogna leggere per ognuno le storie sature di pathos che li accompagnano e cogliere nei visi, negli occhi, e nella solo apparente immobilità, il racconto di vite che nel bene e nel male accompagnarono l’incedere di una dinastia tra le più longeve d’Europa, e il desiderio che bocche inesorabilmente chiuse non possono urlare per far sapere al mondo mille misteriose verità e accadimenti e segreti. Intrecci matrimoniali, lungimiranti strategie, politiche inesplicabili e vagheggiate contese in armi, sogni scintillanti a lungo accarezzati e conturbanti chimere inseguite per secoli; ecco cosa esprimono nascostamente quei ritratti, muti ma mai silenziosi,  proiettati ad un livello di comunicazione che si può cogliere soltanto andando oltre l’immagine. Dietro l’immagine. Dentro l’immagine.

GianCarlo Malacarne



Alla mostra aderiscono, oltre a numerosi collezionisti, la Biblioteca Maldotti di Guastalla, il Museo Gonzaga di Novellara, la Biblioteca Teresiana di Mantova e la Collezione Unicredit con significativi prestiti.

Per ulteriori informazioni e prenotazioni:
Museo diocesano Francesco Gonzaga  
Mantova, Piazza Virgiliana 55 
tel. 0376 320602 
info@museodiocesanomantova.it