sabato 24 ottobre 2009

L'arte dell'intreccio delle "paglie"

Databile tra il 1950 e il 1960 questa testimonianza fotografica
di una trecciaiola molto attenta a quanto le accade intorno, conferma che non vi erano grandi necessità
di verificare con lo sguardo il lavoro svolto meccanicamente
e determinato solo dal semplice tatto delle dita
che intrecciavano i trucioli.




Le donne anziane, le giovani nei momenti di tregua dai lavori pesanti, le bambine per passatempo e anche gli uomini durante la sosta invernale dai lavori della campagna si dedicavano a fare la treccia. Nelle stalle, non v'era filos senza donne che intrecciavano i paioli. C'era anche una Scuola di Treccia, a Villarotta, tenuta dalla Ester di Zachìa, che abitava proprio nelle stanzette della Chiavica dove suo padre era addetto alla custodia: lei accoglieva le ragazzine
e insegnava loro a muovere le "paglie" per fare la treccia e ad usare
i "ferri" per fare le "scapinelle" (calzini).
Un pò dovunque, ci si sedeva su basse seggiole spagliate davanti alla porta di casa, nei cortili, negli ànditi freschi e scuri d'estate, negli stanzini arrangiati alla meglio per stare più caldi (detti fnej o fnilin) d'inverno, o nelle stalle in campagna.
Non di rado si vedevano trecciaiole entrare al cinema col treccino al braccio per non smettere la lavorazione. Si faceva la treccia in ogni momento del giorno, specialmente di pomeriggio e di sera, sempre
in compagnia. Merito delle lunghe trecce era quello di legare le persone in un rapporto amichevole, il treccino fra le dita era come il filo di una trasmittente che non aveva tregua: veloci le dita quanto veloce era la lingua per comunicare notizie di paese, di vicinato, i pettegolezzi, le verità o le mezze bugìe. Fare la treccia era dunque per molte anziane anche un rimedio alla solitudine. Non era certo una fonte di lauti guadagni: solo pochi spiccioli per una treccia di circa 64 metri, che servivano per pagare qualche debituccio, per togliersi un capriccio e, talvolta, per comperare il pane e la pasta.
Si contava sulle velocità delle mani, cioè sul numero di trecce fatte che si riusciva a lavorare in un giorno. Le più esperte facevano trecce con più di tre paioli (fino a 8-10, addirittura!) e guadagnavano di più.
Prima di essere consegnata al truciolaio, la treccia veniva stirata, passata col "cilindar" (slissin o ridlina) e misurata con il "pass"
(al slargà) di un metro, sui cui pioli laterali veniva avvolta per una trentina di giri. L'occhio esperto del truciolaio (o del partidante, che distribuiva le "paglie" alle donne) controllava al ritiro che il lavoro fosse perfetto e contava i mazzoni (slargà) consegnati.
L'attività del truciolo rallentava molto durante l'estate, perchè il caldo asciugava il legno e le paglie con il rischio che si rompessero.

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